(Il testo riprende anche stralci di precedenti riflessioni sul blog)
La lunga marcia
La mia visione globale delle cose italiane si sviluppa partendo da un’infanzia apertasi sui trionfi dell’era fascista, poi bruscamente interrottasi nelle notti trascorse dentro i rifugi scavati nel tufo sotto i bombardamenti aerei e definitivamente cancellata dal casuale ritrovamento fra i campi di canapa dei corpi bruciacchiati di due paracadutisti abbattuti; e poi attraverso una vita di illimitate speranze, una giovinezza di grandi aspettative nella certezza di poter avere presto tutto ciò che si desidera; e poi tutti assieme a mettercela tutta per recuperare i ritardi secolari, per raggiungere e superare inglesi francesi e tedeschi con l’orgoglio di diventare primi o tra i primi nel mondo in molti campi.
Vero, allora i governi cambiavano di continuo. Nei primi 35 anni di vita repubblicana, dal 1946 al 1981, l’Italia ha avuto 39 governi, più di uno all’anno, operanti peraltro in sostanziale continuità da uno all’altro. Alla loro guida e nella loro composizione si avvicendavano personaggi diversi con frequenti scambi di ruolo. Dopo De Gasperi, non grandi leader: Fanfani, Moro, Rumor, Andreotti, Forlani, Spadolini. Nessuno che si staccasse dal gruppo, nessun uomo solo al comando. Avvenivano anche cambi di governo con il nuovo perfettamente identico al precedente. Secondo vari osservatori l’Italia espresse in quegli anni la massima stabilità politica fra i paesi occidentali. Con i suoi governi perennemente in crisi l’Italia riuscì a realizzare risultati impressionanti, senza precedenti da noi o in altri paesi. La ricostruzione postbellica; la riforma agraria con la fine dei latifondi; la casa in proprietà per la gran parte delle famiglie; l’alfabetizzazione di massa; l’imponente sviluppo industriale con posizioni di avanguardia in settori cruciali (chimica, siderurgia, elettrodomestici, manifatturiero, ma anche ricerca nucleare e tecnologia avanzata); la fuoriuscita dalla povertà della grande maggioranza della popolazione e il benessere diffuso (frigoriferi, lavatrici, TV, automobili, vacanze, viaggi all’estero, ecc.). Il concorso determinante alla costruzione europea. Realizzati in cinque anni i 755 chilometri dell’Autosole da Milano a Napoli. L’Italia quinta potenza economica, primo paese turistico al mondo, la lira che che nel 1960 riceve l’”Oscar” come valuta più salda dell’Occidente, il PIL che negli anni ’50 cresce a un tasso medio superiore al 5% fino all’8% nel 1961, la produttività quasi raddoppiata in otto anni con un incremento netto del 50% dei salari, un reddito ‘pro capite’ vicino ai più alti livelli OCSE: ciò che viene definito “il miracolo italiano”. E poi i grandi progressi nel campo dei diritti civili economici e sociali: dopo il voto alle donne, l’abolizione delle case chiuse, la cancellazione del reato di adulterio, l’obiezione di coscienza, il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, la disciplina dell’aborto, la chiusura dei manicomi, il servizio sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori e molto altro.
Leaderismo e grandi riforme: le ragioni del declino
Questo straordinaria corsa in avanti che quasi inevitabilmente, passando attraverso la tragica fase del terrorismo, porta con sé anche cospicui elementi negativi si blocca nei primi anni ottanta in coincidenza con l’affermarsi del nuovo verbo del cambiamento e delle grandi riforme, tuttora dominante: da Craxi a Berlusconi a Di Pietro a Veltroni, oggi a Renzi. Rinasce il mito del leaderismo, dell’uomo nuovo che rompe gli schemi del passato e con la sua visione lungimirante e la sua capacità di azione trasforma il paese portando modernità ed efficienza nella società e nelle istituzioni. A quest’uomo occorre assicurare adeguate possibilità di realizzare il suo programma senza intralci e complicazioni di forme e procedure che lo rallentino. Il Parlamento deve dare il più rapido corso alle sue decisioni: Corte costituzionale, magistratura, università, media, sindacati ed imprese devono smettere di remare contro. Tutto ciò che serve per la “governabilità” diventa obiettivo primario della politica italiana.
Si alza la febbre delle riforme che si articolano in una vera e propria mitologia. Dal 1948 ad oggi la Costituzione è stata significativamente modificata già sedici volte di cui nove negli ultimi quindici anni. Un vero e proprio record: non risulta che in qualsiasi altro paese al mondo si siano mai fatte altrettante modifiche costituzionali in un così limitato arco di tempo. Ma soprattutto negli ultimi due decenni tutto il nostro sistema istituzionale è stato letteralmente stravolto da continue “riforme” dimostratesi poi quasi sempre disastrose, a partire da quella “federalista” del 2001 che con l’abnorme estensione delle autonomie regionali ha prodotto ingenti sprechi di risorse finanziarie nelle regioni e gli incredibili abusi di quei consigli da cui ora si dovrebbero estrarre i futuri senatori. Altrettanto vale per la riforma cosiddetta “del giusto processo”, che nel nome di un garantismo oltranzista ha ulteriormente gravato le procedure giudiziarie di una massa di formalità senza riscontro in altri paesi. In tema di giustizia penso all’abolizione di fatto del reato di falso in bilancio, alla riduzione dei termini di prescrizione penale e ad una serie di altre modifiche introdotte con comprovati effetti negativi. Penso altresì ai nuovi spazi di corruzione offerti dalla riforma Bassanini sulla pubblica amministrazione in virtù dell’autonomia decisionale rimessa al livello burocratico, alla confusione totalmente improduttiva della decantata riforma Brunetta, alla purtroppo illusoria semplificazione legislativa vantata da Calderoli.
In materia elettorale l’Italia ha conosciuto tre leggi in meno di quindici anni: fino al 1992 il sistema proporzionale, poi sostituito dall’uninominale maggioritario (legge Mattarella), quindi dallo scandaloso “porcellum” con le liste bloccate e il premio di maggioranza, dichiarato incostituzionale e ora sostanzialmente ripristinato con il cosiddetto ”italicum”.
Ma praticamente non c’è settore della nostra realtà sociale che sia rimasto indenne da riforme più o meno estese e più o meno profonde negli ultimi venti anni. Tre “grandi riforme” sono intervenute in successione a modificare radicalmente l’ordinamento scolastico e universitario: leggi Berlinguer (1997), Moratti (2001), Gelmini (2008), a cui ora si aggiunge la “buona scuola” dell’attuale ministro Giannini. Ogni ministro fa la sua “grande riforma”. Non è possibile seguire la miriade di modifiche intervenute in materia sanitaria, data la grande varietà delle normative vigenti nelle singole regioni alle quali la materia è stata affidata. Non entro nel merito delle due riforme del sistema pensionistico (Dini e Fornero, intervallate dal famoso “scalone” Maroni), che pure hanno dato e continuano a dar luogo a non pochi e gravi scompensi. Per carità di patria ometto qualsiasi accenno al sistema fiscale che, come purtroppo ognuno si trova a dover sperimentare personalmente, viene ad essere sottoposto a continue e sostanziali modifiche da un anno all’altro, quasi da un mese all’altro.
E’ inutile chiedersi quali benefici siano venuti al Paese da tutta questa lunga serie di riforme, ma è certo che una simile pratica di governo, ispirata da chiare motivazioni demagogiche nell’inconfessato intento di cambiare tutto perché niente cambi, secondo quella che pare essere una nostra triste vocazione, non ha fatto e non fa bene all’Italia. E ciò anche perché le troppe riforme sono state molto spesso influenzate da posizioni personalistiche o da interessi di parte, inquinate da pregiudizi ideologici, elaborate con superficialità e poca competenza e realizzate frettolosamente, senza adeguato studio e riflessione.
Le nazioni prosperano su istituzioni stabili, regole ben radicate, consolidati sistemi di governo. Questo elemento di stabilità istituzionale e di sperimentata permanenza delle norme regolatrici dei diversi ambiti della realtà sociale e della vita stessa dei singoli cittadini si riscontra in misura più o meno evidente in tutti i paesi avanzati. Fa eccezione l’Italia, oggi paese della riforma permanente continua, del cambiamento come valore in sé. Purché ci si muova, non conta dove si va: se poi si va a sbattere sarà colpa di qualcun altro, magari di chi era contrario. E’ il paese degli eterni lavori in corso: come se la soluzione ai problemi fosse da individuare in una serie infinita di modifiche che si susseguono e si sovrappongono le une alle altre senza soluzione di continuità.
Questa linea di condotta sembra attualmente apprezzata dagli italiani, o almeno da una buona parte di essi. Non sorprende quindi che sia potuta passare in questi anni la prospettazione di un’Italia immobile da decenni, bloccata in un sistema politico-economico-sociale incapace di rinnovarsi per rispondere alle mutate e pressanti esigenze del paese che si vuol far credere messo in crisi dalla mancata attuazione di riforme lungamente attese, necessarie per la crescita e non più dilazionabili. Ma questa è una prospettazione i cui presupposti, sistema bloccato e mancate riforme, risultano come si è visto completamente fuori della realtà.
Si tende per contro ad ignorare o a minimizzare gli effetti negativi della debolezza di un sistema normativo-istituzionale in perenne mutamento, quali la scarsa affidabilità ed efficienza di istituzioni in cui metodi di lavoro e prassi operative non hanno tempo di consolidarsi; la mancanza di certezze per i cittadini, gruppi sociali e operatori economici; il senso di legalità affievolito come effetto inevitabile della provvisorietà del quadro legislativo; la difficoltà di una programmazione a medio/lungo termine, in tutti gli ambiti e a tutti i livelli. Leggi che durano nel tempo e istituzioni stabili sono condizione primaria per un sano processo di crescita e di sviluppo che invece nel nostro paese viene seriamente ostacolato dalla inaffidabilità della legislazione e dalla estrema precarietà del correlato contesto amministrativo. E’ qui che va qui cercata la causa prima di quel lento inesorabile declino che da due decenni fa arretrare l’Italia rispetto agli altri paesi.
E’ un discorso controcorrente che però deve indurre a un’attenta analisi di tutta la filosofia che ispira la presente fase politica. Ha senso insistere a individuare nella inadeguatezza delle vigenti norme costituzionali e ordinarie la causa dei problemi dell’Italia e nel forzato cambiamento drastico di tali norme la soluzione di questi problemi? Non è forse questo il modo per sottrarsi all’obbligo specifico del governare attraverso la sana gestione delle risorse umane e materiali disponibili?
Altre sono, al giudizio obiettivo anche di osservatori esteri, le vere cause dei problemi che stanno alla base dell’attuale situazione degradata del paese e che vanamente si cerca di nascondere dietro le mirabolanti riforme prospettate: una gestione politica del quotidiano carente di una visione strategica, largamente ispirata a interessi particolari e infettata dalla corruzione; scarso rispetto delle regole anche da parte di chi sarebbe prima di ogni altro tenuto ad osservarle; una classe politica di mestiere, selezionata in base a clientele di partito e a rapporti personali; importanti ruoli di governo in mano a ministri improvvisati, privi di adeguata cultura politica e di idonea preparazione; svalutazione preordinata e sistematica del merito nell’accesso ai posti di responsabilità e ai vertici della pubblica amministrazione per poter fare spazio ad amici e ad amici degli amici. Si cominci da qui, con senso di responsabilità e nella più ampia condivisione, per fare le cose di cui l’Italia ha davvero bisogno rinunciando alla mitologia delle riforme salvifiche usate come espediente mediatico per eludere i reali problemi del paese.
La Costituzione italiana: modifiche possibili e auspicabili
Si è ironizzato sul titolo “La più bella del mondo” con cui in televisione è stata presentata tempo fa una lettura della Costituzione ad opera di Roberto Benigni. Non ci sono concorsi di bellezza fra le costituzioni, anche perché verosimilmente ogni popolo è a ragione orgoglioso della propria, ma è un dato di fatto che la Costituzione italiana è stata presa a modello per molte delle moderne costituzioni, a partire dalla “Legge Fondamentale” tedesca del 1949 che vi si è ispirata largamente, oltre che per il controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi (art.93) e per il principio di indipendenza dei giudici (art.97), anche su altri punti fondamentali quali la funzione sociale della proprietà (art.14), il diritto di asilo (art.16), l’ordinamento democratico dei partiti politici (art.21), la possibile cessione di sovranità a istituzioni internazionali (art.24), il divieto della guerra di aggressione (art.26) e così via, tutti principi innovatori costituzionalizzati per la prima volta da noi. Potremmo continuare con la Costituzione spagnola del 1978 e con quelle di altri paesi che alla nostra Costituzione hanno attinto a piene mani nei decorsi decenni. Si noti ‘per incidens’ che la Costituzione italiana è quella che per prima al mondo ha previsto e formalizzato il controllo di costituzionalità delle leggi: negli USA la “judicial review of legislation”, infatti, fu introdotta dalla Corte Suprema in via di interpretazione (sentenza Marbury v. Madison, 1803).
Questo ampio riconoscimento e diffuso apprezzamento del valore e dei principi base della Costituzione italiana sul piano internazionale non implica affatto, ovviamente, che essa sia intoccabile. Può ben comprendersi, anzi, che la legge fondamentale dell’Italia risorta dalle ceneri del fascismo e dalle distruzioni della guerra necessiti oggi di modifiche e adattamenti alle mutate condizioni, esigenze e prospettive del Paese, anche in riferimento all’evoluzione dei rapporti internazionali. Del resto la possibilità di modifica è prevista dallo stesso testo costituzionale all’articolo 138 che regola il procedimento di revisione. Deve però trattarsi, a meno di uscire dalla legalità costituzionale attraverso una aperta rottura del sistema, di revisione e non di riforma. Rivedere vuol dire correggere, emendare. Riformare vuol dire formare di nuovo, rifare. Questa distinzione deve essere ben chiara nel momento in cui si progettano modifiche costituzionali. E ogni modifica dovrebbe essere comunque orientata al fine precipuo di preservare e rafforzare il significato e lo spirito della Costituzione, non certo a intaccarne le fondamenta e a sconvolgerne i delicati equilibri.
Ma quali modifiche costituzionali si possono considerare oggi utili ed opportune? Molto avvertita anzitutto è l’esigenza di una significativa riduzione del numero dei parlamentari. Tra le varie proposte, alcune delle quali già formalmente depositate alle Camere, l’ipotesi corrente all’inizio della legislatura era quella di un dimezzamento: 400 deputati e 200 senatori. Più rigorosa, la proposta Chiti portava a un totale di 421 (315 deputati più 106 senatori), ma essa non è stata neppure presa in esame dai nuovi costituenti che, fermi sul numero di 630 deputati per un totale, fra le due Camere, di 730 parlamentari, sono giunti a contenerne la prevista e annunciata riduzione in una misura poco più che simbolica. Il conseguente risparmio effettivo di spesa annua per la mancata corresponsione di indennità e accessori ai senatori è stato contabilizzato in non più di trenta milioni di euro, pari al costo medio di costruzione di sei chilometri di autostrada.
Si tratterebbe altresì di riconsiderare l’attuale bicameralismo c.d. perfetto o paritario, anche al fine di recuperare l’impostazione originaria che per più aspetti distingueva Senato e Camera, fra cui il modo di elezione e la rispettiva durata dei mandati, e connotava particolarmente il Senato con riferimento alla sua base regionale. Si può concordare in proposito sull’opportunità di lasciare alla sola Camera il voto di fiducia e quello sulle leggi finanziarie e di bilancio, sulla ratifica dei trattati internazionali, sulla deliberazione dello stato di guerra, sui provvedimenti di amnistia e di indulto. Ma al Senato per converso si potrebbero riservare altre competenze specifiche quali il controllo sui bilanci delle regioni e soprattutto, secondo il modello statunitense dell’“advice and consent”, una verifica delle nomine ai vertici dell’amministrazione e degli enti controllati, finora rimesse in assoluta discrezionalità e senza alcuna garanzia di trasparenza alla decisione del capo dell’esecutivo. Non posso invece essere d’accordo sulla grave limitazione del ruolo del Senato nella formazione delle leggi e sull’assurda complicazione che ne consegue per il procedimento legislativo: ma questo punto mi riservo di approfondire a parte.
Ovviamente accettabile è la proposta di soppressione del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), organo di consultazione del Governo e del Parlamento, dimostratosi nella pratica inidoneo a svolgere il ruolo per cui era stato concepito.
Positiva è la prevista abolizione delle province, purché però sia vera ed effettiva e non si riduca alla semplice ridenominazione di “enti di area vasta” di cui alla legge Delrio (n.56 del 2014), lasciandosi alla libera iniziativa dei comuni, magari incoraggiata con opportuni incentivi regionali o statali, l’adozione di idonee forme di cooperazione ai fini di una migliore e più economica gestione dei servizi definiti “di prossimità” (scuole dell’infanzia, trasporto locale, turismo, biblioteche, impianti sportivi, rifiuti, ecc.) sul modello della cosiddetta ”intermunicipalità” sperimentata in Francia. Un analogo sistema di incentivazione si potrebbe applicare, riguardo all’amministrazione territoriale, per ridurre il numero dei comuni favorendo la fusione di quelli al disotto di un livello minimo di popolazione (3-5mila abitanti). Ma alla soppressione del livello amministrativo provinciale deve coerentemente collegarsi l’eliminazione delle prefetture, non invece il loro proposto accorpamento, oltretutto assai problematico e configurabile eventualmente solo in una fase di graduale passaggio: e ciò per valide considerazioni di principio, non certo in vista di qualche minimo risparmio di spesa. La prefettura appare oggi un residuo del regime amministrativo napoleonico senza riscontro in altri paesi (Francia a parte) e incompatibile sostanzialmente con il nostro ordinamento regionale.
Si può largamente condividere anche l’impostazione della riforma del Titolo V della Costituzione, per cui si eliminano le competenze legislative “concorrenti” dello Stato e delle Regioni con conseguente ridefinizione delle competenze esclusive dello Stato e di quelle residuali delle Regioni e si introduce una “clausola di supremazia” della legge statale anche nelle materie di competenza regionale. Trattasi di una necessaria controriforma per rimediare alle conseguenze disastrose della riforma “federalista” attuata dal centrosinistra nel 2001: una riforma allora definita epocale nell’ubriacatura del momento e indicata come doverosa per adeguare le norme costituzionali alle nuove istanze del paese, razionalizzare i rapporti fra le istituzioni, ridurne i costi e venir meglio incontro alle esigenze dei cittadini. I risultati di quella riforma sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Tornando alle auspicabili innovazioni costituzionali, si risente ormai sempre più forte la carenza di una regolamentazione di fondo per materie e settori che nel corso degli anni sono venuti ad assumere un rilievo crescente nella realtà politico-economico-sociale del Paese, come la proprietà e il controllo dei mezzi di informazione, il corretto funzionamento dei mercati e la concorrenza, i conflitti di interesse: materie e settori per cui la definizione di precise regole costituzionali appare indispensabile per un corretto sviluppo dell’economia e per un ordinato svolgimento della vita pubblica. Di un’altra potenziale modifica, fondamentale a mio giudizio, mi propongo di fare cenno più avanti.
Non può comunque passare sotto silenzio il fatto che a quasi settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione alcune delle sue previsioni più rilevanti risultano tuttora disattese. Solo ora si viene a scoprire che l’articolo 49, affidando ai partiti il compito di concorrere alla determinazione della politica nazionale, impone loro un requisito di “democraticità” tale da doversi ovviamente poter riscontrare in idonee forme di legge laddove invece la configurazione statutaria, la gestione e le vicende interne dei partiti si sono sempre sottratte e tuttora si sottraggono ad ogni regola e ad ogni modalità di trasparenza che valga a garantirne il richiesto carattere democratico. Una condizione analoga si verifica per i sindacati per i quali ancora si attende quella legge regolatrice che ai sensi dell’articolo 39 dovrebbe imporne la registrazione condizionata alla presenza di uno statuto che ne assicuri un ordinamento interno a base democratica.
Il bicameralismo
Per giustificare la riforma in via di attuazione si assume che l’eliminazione del cosiddetto bicameralismo paritario semplifica l’attività legislativa del Parlamento evitando il debilitante ping-pong tra le due Camere. Ma il sistema bicamerale con la partecipazione delle due Camere alla funzione legislativa non è un dato casuale o tralatizio e non configura affatto una duplicazione inutile ma invece risponde alla precisa esigenza di una affidabile qualità delle leggi, consentendo al Parlamento di ponderare adeguatamente le scelte complesse e delicate che gli sono affidate per rispondere nel modo migliore alle esigenze del paese. E’ fin troppo noto che quasi tutte le leggi di una certa importanza vengono oggi modificate e quindi migliorate nel passaggio da una Camera all’altra. Vi sono esempi eclatanti di leggi approvate da una Camera con errori anche molto gravi che vengono poi corretti nel successivo esame nell’altra Camera. L’intento specifico è quello di dare al cittadino delle buone leggi: una legge malfatta produce danni e deve essere rifatta con spreco di tempo e di risorse, come una casa mal costruita. Affidare a una sola Camera la formazione delle leggi sarebbe come, mi si perdoni il paragone banale ma espressivo, privarsi di uno dei due occhi perché uno solo basta per vederci. Per questa ragione quasi tutti i paesi di democrazia avanzata mantengono un sistema bicamerale con un Senato, pur diversamente composto e operante in ciascun paese, ma comunque reso variamente partecipe della funzione legislativa.
E’ noto che negli Stati Uniti vige un bicameralismo pressoché perfetto per cui ogni progetto di legge necessita dell’approvazione sia della Camera dei rappresentanti sia del Senato.
Anche in Francia, Assemblea nazionale e Senato partecipano alla funzione legislativa in posizione paritaria fino all’adozione di un testo condiviso con l’eventuale ricorso a commissioni miste paritetiche nel caso di disaccordo. Parimenti nel Belgio il potere legislativo è esercitato collegialmente, con la partecipazione del Re, dalla Camera dei deputati e dal Senato.
In Gran Bretagna, la Camera dei Lord ha piena facoltà di proporre emendamenti, che vengono normalmente accettati dai Comuni, e altresì di esercitare un veto sospensivo con l’effetto di ritardare l’approvazione di una legge per due sessioni parlamentari (dodici mesi).
In Germania il Bundesrat (Senato) è coinvolto a pieno titolo nel processo legislativo. Il sua accordo è necessario in determinate materie (pubblico impiego, pensioni) oltre che per le modifiche costituzionali e nelle altre materie può fare opposizione dopo di che, ove sia fallita la procedura di conciliazione, una legge può essere definitivamente adottata dal Bundestag (Camera dei deputati) a maggioranza semplice o di due terzi a seconda della maggioranza con cui l’opposizione è stata votata dal Bundesrat.
In Spagna il potere legislativo è esercitato congiuntamente dai due rami delle Cortes generali. I progetti di legge approvati dal Congresso sono sottoposti alla deliberazione del Senato che con messaggio motivato può apporre il veto o apportare emendamenti. Il Congresso può accogliere o respingere gli emendamenti e, in caso di veto, ratificare dopo due mesi il testo iniziale a maggioranza assoluta.
In Polonia i disegni di legge adottati dalla Dieta passano al Senato che può approvarli senza emendamenti, emendarli o semplicemente respingerli: la decisione di rigetto o di modifica può essere superata dalla Dieta solo con un voto a maggioranza assoluta.
In Australia, secondo la Costituzione, il Senato ha poteri uguali a quelli della Camera dei rappresentanti rispetto a tutti i progetti di legge.
Certo è che il modello Renzi-Boschi con cui si pensa di rendere più semplice ed efficiente il nostro sistema legislativo non ha riscontro in altri paesi. Non mi arrischio a tentare di illustrarne o anche solo riassumerne il demenziale contenuto. Mi limito perciò a trascrivere qui di seguito il testo del nuovo articolo 70, sostitutivo di quello attualmente in vigore (“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”), rimettendolo alla volenterosa interpretazione del cittadino elettore:
“Art. 70 (nuovo testo)
“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.
“Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
“Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.
“L’esame del Senato per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.
“I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione.
“I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti.
“ll Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati.”
In conclusione sono convinto che, come garanzia per il sistema democratico e per il bene del paese, il Senato dovrebbe poter condividere la funzione legislativa, oltre che per le leggi costituzionali ed elettorali, anche per tutte quelle riguardanti diritti civili e prestazioni sociali e sulle autonomie regionali e locali, legiferando eventualmente in via esclusiva sui principi base nelle materie assegnate alla competenza regionale. Un sistema così articolato andrebbe a superare gran parte dei difetti del denunciato bipolarismo perfetto o paritario. Peraltro l’obiettivo di velocizzare il procedimento legislativo potrebbe ottenersi attraverso semplici ed efficaci interventi sui regolamenti parlamentari, evitandosi di ricorrere a modifiche sconvolgenti degli attuali equilibri istituzionali. Invece la riforma in atto, con lo svuotamento pratico del Senato quale seconda camera legislativa e con il suo ridimensionamento a occasionale momento di incontro di sindaci e di consiglieri regionali già gravati da impegni amministrativi di non poco rilievo, porta una grave ferita al nostro sistema politico.
Il non dichiarato ma ben evidente scopo della riforma
Vi è comunque da osservare che se una riforma costituzionale volta a correggere l’attuale sistema bicamerale può accettarsi in via di principio come utile e opportuna, poco si giustifica l’assoluta priorità e urgenza ad essa attribuita rispetto alle tante cruciali emergenze che in questi tempi difficili affliggono il paese esigendo interventi immediati: i milioni di famiglie stabilmente sotto la soglia di povertà; l’alto tasso di disoccupazione con quasi una metà dei giovani senza lavoro e senza prospettive; l’immigrazione incontrollata; la crisi delle attività produttive con le piccole e grandi imprese che chiudono e licenziano o si spostano all’estero; il dissesto del territorio che settimanalmente colpisce ora l’una ora l’altra zona del nostro paese; la rovinosa evasione fiscale e la corruzione dilagante; il debito pubblico in continua ascesa. Verrebbe ingenuamente da chiedersi per quale motivo la questione del cosiddetto bicameralismo paritario sia divenuta la massima urgenza dell’Italia, al punto di essere assunta ad elemento essenziale e non negoziabile di una riforma che ha impegnato prioritariamente per oltre un anno il Parlamento, venendo all’approvazione finale tra evidenti forzature di regolamenti, in tempi strettissimi rigidamente contingentati, con maggioranze occasionali e a prezzo di gravi spaccature tra le forze politiche.
La realtà è che con questa riforma della Costituzione si tende ad introdurre per via surrettizia quel presidenzialismo che è ad un tempo residua aspirazione nostalgica di una parte disorientata della nostra gente e obiettivo primario di alcune forze politiche di destra e che risulterebbe esiziale per la nostra democrazia in assenza dei necessari anticorpi nella nostra società e di idonei freni e contrappesi nel contesto politico del nostro paese: una specie di presidenzialismo spurio, con un sistema elettorale incentrato sulla figura del candidato premier che assume dopo le elezioni la totalità dei poteri di governo a fronte di un parlamento depotenziato, ridotto di fatto ad una sola Camera legislativa come mero strumento di ratifica dei provvedimenti decisi dal governo, più esattamente dal premier, e resi incontestabili e immodificabili attraverso il ricorso sistematico al voto di fiducia. In un tale quadro il Parlamento viene ad assumere un ruolo subordinato “di servizio”, non dissimile da quello oggi ben esemplificato dalla “Duma” russa. Coerente con questo ruolo minimale risulta altresì l’attribuzione di uno schiacciante premio di maggioranza al partito del premier per effetto di un meccanismo elettorale (c.d.”italicum”) che distorce il basilare principio democratico di rappresentanza, e nella medesima linea si assicura la presenza di membri “nominati” nel residuo ramo del Parlamento, poiché anche per quel che resta del Senato si sottrae ai cittadini il potere di scelta, con senatori che tornano ad essere nominati come ai tempi della monarchia, ma ora in virtù di un meccanismo di “autonomina” nell’ambito dei consigli regionali. Sennonché, così istituzionalizzata la dipendenza del Parlamento nei confronti del Governo, il sistema politico viene ad essere privato del suo fondamentale elemento di garanzia di democraticità che è rappresentato dalla separazione dei poteri. In questa concezione del sistema politico i cittadini sono semplicemente chiamati ogni cinque anni a dare fiducia ad un capo che poi deciderà a sua discrezione per il bene del paese.
Lo Stato italiano si è costituito alla nascita in forma di democrazia parlamentare e in questa forma si è mantenuto fino ad oggi, tolta la disastrosa parentesi del ventennio fascista. Dato costitutivo e identificante della democrazia parlamentare è la centralità del Parlamento eletto dai cittadini e rappresentativo della sovranità popolare, che oltre alla sua specifica funzione legislativa, esprime il governo a cui conferisce o nega la fiducia, di cui ispira l’azione politica e controlla politicamente l’operato.
La democrazia presidenziale si differenzia per la posizione del capo del Governo che, eletto direttamente dal popolo, dispone di poteri propri e può prendere decisioni in autonomia dal Parlamento. Ma questo ruolo preminente del capo del Governo pone l’esigenza di un articolato quadro istituzionale atto a garantire la democraticità del sistema politico contro possibili derive verso forme di autoritarismo con più o meno velati sbocchi dittatoriali. Negli Stati Uniti, modello di democrazia presidenziale, le garanzie contro gli inconvenienti e i rischi riferibili all’”uomo solo al comando” sono essenziali e connaturate allo stesso sistema politico, integrandosi in quell’equilibrato dispositivo di limitazioni dei ruoli e di distribuzione e di controlli del potere che si definisce di “checks and balances”. Situazione opposta quindi a quella che si sta per realizzare da noi attraverso una riforma incoerente e irresponsabile che, se e quando sarà attuata, farà pagare un prezzo molto alto all’Italia e agli italiani.
Come spiegarsi questa riforma se non con il preciso intento di ridimensionare, attraverso la “deminutio” del Senato, il ruolo stesso del Parlamento? D’accordo, non si tratta ancora di un completo stravolgimento del nostro sistema costituzionale, per cui non avrebbe senso parlare oggi di regime autoritario alle porte, ma certamente la riforma in atto si qualifica come un “primo passo” nella direzione sbagliata, l’inizio di un possibile pericoloso scivolamento in uscita dalla democrazia. E un paese della storia, della cultura e delle responsabilità politiche dell’Italia non può assolutamente permettersi rischi di tal genere né ridursi, in questa materia, a campo di esercitazioni di dilettanti allo sbaraglio.
Una Costituzione è di tutti, unisce o non è
La Costituzione italiana del 1948 fu il risultato di diciotto mesi di lavoro intenso e appassionato di un’assemblea di cui facevano parte i più qualificati esponenti della nostre cultura, della politica antifascista e delle forze della Resistenza, molti dei quali avevano conosciuto i processi politici, il carcere, in qualche caso anche la tortura, e poi il confino, l’esilio, la discriminazione razziale. Alla sua elaborazione concorsero tutte le forze democratiche del Paese apportandovi ciascuna il contributo delle sue motivazioni ideali. La Costituzione fu approvata a larghissima maggioranza, 458 voti contro 62: perciò essa va riguardata come un dato identitario della nostra democrazia, basata su valori condivisi che uniscono tutti gli italiani senza distinzioni di partito o di ideologia politica.
La Costituzione, ben più che una legge sovraordinata alle leggi ordinarie, è la carta fondante della nazione e della struttura istituzionale con cui la nazione si organizza e autoregola: il dato identificativo, il DNA, di una specifica realtà politica sociologica e culturale, punto di convergenza e di raccolta dei valori e dei principi distintivi del popolo di cui essa è espressione e di cui incorpora lo spirito, come parte integrante e componente essenziale del suo patrimonio ideale e della sua cultura. E’ la legge che ogni cittadino fa propria e in cui tutti i cittadini si riconoscono membri di un’unica comunità nazionale. Ben si comprende quel sentimento collettivo che il filosofo tedesco Jurgen Habermas definisce “patriottismo costituzionale”, per cui ogni popolo mena vanto della propria Costituzione. Ma una Costituzione che divide come quella profondamente innovata che oggi si sta per imporre in Italia, varata da alcuni contro altri in forza di una temporanea maggioranza per cui quelli che oggi sono minoranza si sentiranno in diritto di cambiarla a loro volta quando diventeranno maggioranza, non può non avere un effetto devastante sul sentimento di unità nazionale: essa è per ciò stesso un nonsenso e, indipendentemente dal suo contenuto effettivo e dall’esito dell’eventuale referendum, si qualifica come una riforma pessima. Una Costituzione “riformata” con queste modalità non è più la legge unificante di un popolo ma diventa il precario strumento di potere del governo in carica, ed è così che un paese cessa in realtà di avere una Costituzione.
Ma da questa penosa esperienza dobbiamo trarre almeno un’importante indicazione per una più che opportuna modifica del vigente articolo 138, tale per cui non basti una semplice maggioranza per l’approvazione delle leggi di revisione costituzionale, ma si esiga il voto di almeno due terzi dei membri del Parlamento, come in altri paesi (negli USA gli emendamenti votati a maggioranza di due terzi da ciascun ramo del Congresso devono poi essere ratificati dai tre quarti degli Stati), sì da assicurare alle modifiche un ampio consenso delle forze politiche rappresentanti le diverse posizioni e istanze dei cittadini. Il referendum dovrebbe poi seguire in ogni caso come formale imprescindibile sigillo della conforme volontà popolare.
L’Italia potrà risollevarsi e ripartire se gli italiani saranno uniti. Un’Italia che si divide già sulla sua Costituzione non ha futuro. Non fosse che per quest’ultima preminente ragione, un elementare dovere civico impone a chi ancora crede nell’Italia di opporsi con ogni forza a una riforma tanto spocchiosa quanto sconsiderata, frutto ad un tempo di improvvisazione, disinformazione e malafede.
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